(Annibale)
Nessuna fatica poteva sopraffare il corpo o l'animo. Sopportava sia il
caldo che il freddo; la misura del cibo e del bere era determinata non
dal piacere ma dalla natura. I tempi della sveglia e del sonno non erano
determinati dall'ora sia di giorno che di notte: ciò che rimaneva
nel fare le cose si dedicava al riposo. Si riposava senza un materasso
morbido e silenzio. Spesso giaceva per terra coperto da un mantello tra
le sentinelle di guardia. Non era vestito in maniera diversa da i suoi
compagni; erano invece apprezzati le armi ed i cavalli. Era di gran lunga
il primo dei cavalieri e dei fanti; entrava per primo in battaglia, si
allontanava per ultimo finita la battaglia. Però grandissimi difetti
eguagliavano queste grandi virtù: crudeltà inumana, una perfidia
più grande dei Cartaginesi, non c'era nulla per lui che fosse
considerato vero, non c'era nulla di sacro, non c'era nessun giuramento,
nessuno scrupolo religioso, nessun timore degli dei.
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
Annibale
si avvicina alla Alpi ^top
Annibale,
giunto alla riva opposta del Rodano, si diresse verso la Gallia mediterranea,
non perchè la strada per le Alpi fosse più semplice, ma perchè
pensava che quanto più si sarebbe allontanato dal mare, tanto meno
si sarebbe fatto incontro ai romani. Infatti, prima che fosse giunto in
Italia, non aveva intenzione di combattere con quelli. Nel quarto giorno,
dopo che aveva spostato gli accampamenti, arrivò nell'isola: là
i fiumi Arar e Rodano, scorrendo separati giù dalle Alpi, circondati
alquanto i campi confluiscono in uno solo: da quel luogo è derivato
il nome per metà dei campi di quell'isola. Gli Allobrogi, popolazione
per nulla inferiore a quella gallica per fama o potenza, abitano vicino.
Da lì il fiume sfocia nel Druenza. Quello è il passaggio
di gran lunga più difficile di ogni corso d'acqua alpino: infatti
quando la poderosa forza dell'acqua trasporta, sebbene non sia navigabile
perchè non contenuto da alcun argine, fluisca tra moltissime cavità,
crei in continuazione nuovi vortici e nuovi guadi, massi e ghiaia, non
presenta alcuna cosa stabile o sicura da passare quando tracima. Inoltre,
poi, accresciuto dalle piogge impediva molto l'avanzare.
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
Buona
politica è non incrudelire sui vinti (incompleta) ^top
Camillo
riferì al senato circa i popoli latini e così disse: "Senatori,
ciò che dovette essere fatto con la guerra e con le armi, questo
già si è realizzato per la benevolenza degli dei ed i valori
dei soldati. Gli eserciti dei nemici furono distrutti nei pressi di Pedo
e Astura; tutte le sittà latine ed Anzio tra le città dei
Volsci, o prese con la forza o accolte in resa, sono tenute dai vostri
presidi. Rimane una decisione, poichè ribellandosi piuttosto spesso
ci sollecitano, in modo che otteniamo con una pace perpetua che essi (siano)
calmi. [...]
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
Calamità
e superstizioni a Roma (incompleta e con possibili errori) ^top
Per
i consoli Aulo Cornelio Casso e Tito Quinto Penno ci fu moltissima difficoltà
per la siccità: gli dei in nessun modo fecero piovere ma la terra,
anche mancando d'acqua, per un po' a fatica bagnò i campi. Altrove,
mancate le acque intorno alle fonti inaridite ed ai fiumi, fece strage
di pecore, che morivano per la sete. Le rimanenti si ammalarono di scabbia
e le malattie diffuse per contatto tra gli uomini si riversarono sui contadini.
In seguito la città si riempì di abitanti che fuggivano dalla
campagna. I corpi non erano stati affetti in nessun modo dal morbo contagioso,
ma il diffuso terrore superstizioso invase gli animi. Infatti quelli ai
quali a causa della superstizione [..?..] introducevano
nuovi riti di sacrificio nelle case. Infine quella vergogna pubblica raggiunse
le civiltà più illustri che cercavano ovunque e sempre le
vendette insolite ed estranee agli dei. Poi venne dato agli edili il compito
di vigilare, affinchè nessuno tra gli dei, se non romani, nè
con altri costumi fossero celebrati dalla patria.
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
Disperata
situazione dei campani ^top
Gli
ambasciatori, entrati nel senato, esposero questo parere: "Il popolo campano
mandò a voi, o senatori, noi ambasciatori, per chiedere a voi amicizia
e aiuto. Non proviamo rincrescimento per ciò che il fato ci obbliga
a dire: è venuta con esso che fossimo nella forza o amici o nemici.
Ciò non ci sfugge: se ci difenderete, saremo dei vostri; se ci abbandonerete
saremo dei Sanniti. I Sanniti vennero da noi per assalirci non perchè
si lamentavano dell'ingiuria accettata, ma perchè gioivano che fosse
offerto loro il pretesto.
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
Esortazione
ai soldati ^top
Soldati,
io vorrei che voi combattiate non solo con quell'animo con cui siete soliti
farlo contro gli altri nemici, ma con tale sdegno e furore, come se improvvisamente
vedeste i vostri schiavi fare guerra contro di voi. Sarebbe stato giusto
far morire di fame quelli, chiusi presso Erice, sarebbe stato lecito trasportare
la flotta vincitrice in Africa e distruggere Cartagine in pochi giorni
senza nessuna battaglia: graziammo quelli che (ci) imploravano, li lasciammo
sfuggire dall'assedio, facemmo pace
con i vinti, quando l'Africa era incalzata dalla guerra. Seguendo un giovane
pazzo, in cambio di questi favori, sono venuti per attaccare la nostra
patria. E volesse il cielo che questa lotta fosse soltanto per il vostro
onore e non per la vostra salvezza; voi dovete combattere non per l'occupazione
della Sicilia e della Sardegna, per le quali un tempo ci si era mossi,
ma a difesa dell'Italia. E dietro non c'è un altro esercito che,
se noi non vinciamo, si opporrà al nemico, né ci sono altre
Alpi che i nemici debbano superare. Bisogna opporsi Qui, o soldati,
come se combattessimo davanti alle cinta di Roma. Ognuno pensi a proteggere
con le armi non il proprio corpo, ma la moglie ed i figli piccoli e non
si preoccupi solo delle faccende domestiche, ma consideri con l'animo che
le nostre mani siano ora rivolte al senato ed al popolo romano.
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
Eumene
vittima di un attentato ^top
Risultava
abbastanza evidente che il re Eumene, per offrire un sacrificio ad Apollo,
sarebbe salito a Delfi. Gli insidiatori, venuti avanti, cercavano l'occasione
per circondare tutto il luogo. Mentre si saliva al tempio, prima che si
giungesse agli affollamenti nei luoghi con gli edifici, c'era una barriera
dalla parte sinistra del passaggio, un po' sporgente alla base, per la
quale uno per volta transitavano; la parte destra, a causa di un cedimento
della terra ad una certa altezza, era stata distrutta. I sicari macedoni
si nascosero dietro la barriera, affinchè da quella, come da un
muro, scagliassero i dardi a chi passava. Quando arrivò in quel
luogo, per il quale si passava uno alla volta, entrò per primo nel
sentiero Pantaleone, principe dell'Etolia, con il quale il re in quel momento
parlava. Allora gli insidiatori, insorti buttarono giù due enormi
pietre delle quali uno colpì la testa del re, l'altra tramortì
la spalla. Accumulati molti sassi dal passaggio pendente sopra il orente,
le sentinelle e gli alleati, dopo che videro quello che accadeva, scapparono
velocemente. Pantaleone, costantemente impavido, rimase per proteggere
il re. Gli assassini, sebbene potessero correre per il breve perimetro
della barriera per ammazzare il ferito, come compiuto dal re, si rifugiarono
sulla cima del Parnaso, e lasciarono lì il corpo del re tramortito.
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
La
morte di Cicerone ^top
Con
l'avvicnarsi dei triumviri Ciceronesi si era allontanato dalla città,
ritenendo per certo, come era veramente, di non potersi sottrarre ad Antonio
più che a Bruto e Cassio a Cesare. In un primo momento si rifugiò
nella villa di Tuscolo; da lì per vie traverse partì per
quella di Formia con l'intenzione di imbarcarsi a Gaeta; e di qui spintosi
più volte al largo, sia perchè i venti contrari l'avevano
riportato in direzione della costa sia perchè non riusciva a sopportare
il rollio della nave provocato dall'incerto volgersi delle onde, lo prese
alla fine lo sconforto della fuga e della vita e fatto ritorno alla villa
di prima, che è lontana dal mare poco più di un miglio, esclamò
" che (io) muoia nella patria che tante volte ho salvato!". E' abbastanza
sicuro che i suoi schiavi fossero disposti a combattere in sua difesa con
energia e fedeltà; ma egli gli ordinò di mettere in terra
la lettiga e di subire rassegnati ciò che l'ingiusto destino imponeva:
sporgendosi dalla lettiga e offrendo immobile la sua nuca, gli fu recisa
la testa. E questo non fu sufficiente alla insensata crudeltà dei
soldati; le mani furono tagliate accusandolo di avere scritto contro Antonio.
Così la sua testa fu portata ad Antonio e per suo ordine posta in
mezzo alle due mani sui rostri, dove lui console e spesso consolare, dove
quello stesso anno contro Antonio era stato ascoltato con tale ammirazione
per la sua eloquenza, quale mai era spettata ad una voce di un uomo. Stentando
nel sollevare gli occhi per le lacrime la gente poteva guardare le membra
mozzate di tale cittadino.
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
Tragica traversata di una palude
Annibale pur potendo seguire un altro percorso, più comodo ma più lungo, prese
la strada più breve attraverso le paludi, proprio nella zona in cui in quei giorni
il fiume Arno era straripato più del solito. Per primi seguirono i segni delle guide,
attraversarono le voragini profondissime e a precipizio, anche se venivano quasi risucchiati
dal fango. Invece i Galli, quando scivolavano, non erano in grado di reggersi o di tirarsi
fuori dalle buche. Inoltre non facevano nulla per dare una sferzata di coraggio al proprio
corpo o per sostenere il morale con un po' di speranza: alcuni di loro trascinavano
stancamente le membra, altri, se anche una volta cadevano vinti dallo scoramento, si
lasciavano morire tra le bestie morte e quelle giacenti. E le veglie sopportate ormai
per quattro giorni e per tre notti li affaticarono tutti. L'acqua era dappertutto: non
si poteva trovare un solo posto dove distendere i corpi stanchi all'asciutto e allora
i bagagli venivano ammonticchiati nell'acqua e gli uomini vi si buttavano sopra. Annibale,
malato al primo occhio era trasportato da un elefante per stare più in alto dell'acqua.
Infine il comandante si ammalò dall'altro occhio per le veglie piene di umidità notturna.
|
Versioni di latino tradotte - Tito Livio
|
|
Umanità
di Lucio Emilio Paolo verso il vinto Perseo (incompleta e con possibili
errori) ^top
Coperto
con un mantello nero, Perseo entrò negli accampamenti con il figlio
e nessun altro dei compagni. Non poteva avanzare a causa di una moltitudine
che accorreva ad uno spettacolo, fin quando furono mandati dal console
delle guardie, affinchè, allontanata la folla, facessero spazio
fino alla tenda del generale. Il console si alzò, comandò
agli altri di sedersi, e avanzata un po' forse la mano destra al re che
stava entrando e sottomettendosi ai piedi non permise [..?..],
introdotto nel tabernacolo, ordinò di sedere in consiglio di fronte
agli avvocati. La prima domanda, che sollevò un'ingiuria, fu di
aver suscitato una guerra contro il popolo romano dall'animo talmente ostile
da spingere sè ed il suo regno ad un'ultima decisione. [..?..]
il console, al contrario: "Se tu avessi preso il resto del regno, per quanto
mi riguarda mi sarei meravigliato meno che tu non capissi che il popolo
romano fosse un nemico tanto grave, ebbene , in verità, avresti
partecipato alla guerra di tuo padre che [..?..] con noi, e dopo che con
somma fiducia, ci esercitammo contro di lui, ti saresti ricordato della
pace, poichè si deliberò che tra quelli tu avresti esercitato
sia la forza in battaglia che la speranza nella pace, preferendo che la
guerra fosse con te e la pace con quelli?" Non rispondendo nè l'accusato
nè l'interrogato, chiese: "Comunque, tuttavia, queste cose, o per
errore umano, o per caso, accaddero, [..?..] la nota clemenza
del popolo romano non ti offre in nessun modo la speranza per le difficoltà
dei molti re e popoli, ma per poco una certa fiducia di salvezza.